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George Karimi racconta le condizioni disumane del sistema di detenzione cinese

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George Karimi è un imprenditore svedese che ha trascorso sette anni nelle carceri cinesi per una condanna ingiusta, dopo essere stato accusato da un suo socio – torturato dalle autorità con questo scopo – di falsificazione di denaro. Lasciata alle spalle la terribile esperienza, l’uomo può oggi raccontare le condizioni disumane del sistema di detenzione cinese.

Voci sullo spietato sistema carcerario della Cina corrono ormai da diverso tempo nonostante l’intensa campagna mediatica messa in atto dal governo, nonostante ciò risulta praticamente impossibile per giornalisti ed enti internazionali di accedere e verificare le effettive condizioni dei detenuti.

I giornalisti stranieri che raccontano queste realtà vengono immediatamente espulsi, mentre nel 2005 una concessione fu accordata agli ispettori delle Nazioni Unite, i quali avrebbero dovuto esaminare e dunque sentenziare sulla vita nelle carceri del regime orientale. Ovviamente i suddetti ispettori ebbero la possibilità di un controllo estremamente limitato, per fa sì che le condizioni di queste strutture non risultassero così terribili.

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A raccontare l’incredibile esperienza nelle prigioni cinesi tuttavia è George Karimi, autore di un libro che farà sicuramente molto rumore. Secondo l’imprenditore svedese, le piccole celle (che raggiungevano al massimo 21mq) venivano occupate da sei fino a sedici detenuti, che in pessime condizioni igieniche dovevano svolgere lì tutte le loro funzioni fisiologiche.

Come racconta l’ex detenuto, il cibo risulta essere immangiabile e non in pochi preferiscono morire di fame, anche se spesso vengono brutalmente malmenati dalle guardie affinché lo mangino contro la propria volontà. La violenza del resto è piuttosto comune e regolare nei centri di detenzione della Cina, dove i condannati subiscono le aggressioni delle guardie per i motivi più futili.

A proposito dei detenuti, in molti si trovano lì ingiustamente dal momento che il sistema cinese prevede torture atroci per far confessare gli accusati, i quali – al limite della sopportazione – finiscono per ammettere reati che non hanno mai commesso. Tra i metodi di tortura rientrano le scosse elettriche e l’uso dell’acqua ghiacciata, fino ad arrivare alla rottura delle dita.

Infine, i condannati a morte vengono tenuti vivi fino al momento in cui i loro organi saranno richiesti dagli ospedali. A quel punto le autorità somministrano sedativi, rimuovono gli organi utili e dunque li lasciano morire.

 

 

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